Tra parenti ritrovati e false paternità: il mondo di Cettina Giannetto, la regina del DNA
MESSINA. Ha un master di II livello in Scienze forensi, una specializzazione in Microbiologia e Virologia Medica dell’Università La Statale di Milano e una in Patologia Clinica de La Sapienza di Roma. Nel suo curriculum si fatica a contare corsi, seminari, convegni e tante consulenze tecniche. Cettina Giannetto, biologo molecolare e forense, consulente tecnico iscritto all’Albo del Tribunale di Messina, si occupa oggi di analisi di polimorfismi del DNA, test di paternità, di fratellanza e di identità. “Topo di laboratorio” sì, ma che non si tira indietro di fronte a nessun incarico e anzi si appassiona ai casi familiari più complicati. Le sue giornate sembrano durare non 24 ma 48 ore e tutto questo ebbe inizio con una laurea in Biologia a indirizzo biomolecolare con tanto di 110 e lode. La dottoressa, tra l’altro irriducibile amante di moto di grossa cilindrata e di immersioni subacquee, appassionata di vini e di opera lirica, quella laurea con indirizzo biomolecolare la conseguì nel 1993. Fu quello il primo anno in cui nella città dello Stretto un esiguo gruppo di studenti ottenne quel titolo con il nuovo ordinamento universitario della Facoltà di Scienze biologiche.
Iniziamo con una domanda certamente più da gossip. È stato pubblicato su La Stampa e su Panorama che in Italia un figlio su 10 è il frutto di un tradimento. Il record di figli illegittimi ce lo avrebbe l’Alto Adige. Il Corriere della sera ha parlato addirittura del 15% dei bambini. Suppongo che nella maggior parte dei casi gli uomini non sappiano di non essere i padri biologici e perciò i dati riportati dai giornali sembrano un po’ inquietanti. Lei potrebbe confermarli? “Non è possibile considerarli dati scientifici: noi abbiamo contezza numerica solo di ciò di cui siamo a conoscenza e pertanto i numeri potrebbero essere anche più alti. Non esiste, insomma, una statistica sicura, perché le stime si basano unicamente sui risultati dei test genetici effettuati nei vari laboratori. In merito a paternità biologiche dubbie o definitivamente escluse, la vita a volte porta su vie diverse per scoprire inaspettate verità. Dal canto mio posso citare il caso di una coppia separata con un figlio minore il cui mantenimento era a carico del padre. L’uomo aveva una nuova compagna e nonostante vari tentativi non riusciva ad avere figli. A seguito di un malessere gli fu diagnosticato un tumore e, dovendosi sottoporre a un delicato intervento, i medici gli consigliarono di depositare il suo seme perché l’operazione avrebbe potuto causargli la sterilità. Dallo spermiogramma risultò però che l’uomo era già sterile e a quel punto entrò in gioco una riflessione sulla sua precedente relazione e una richiesta di un test di paternità sul bambino avuto dalla prima moglie. Ebbene, si accertò che quel ragazzino non era suo figlio biologico. Altro caso che ricordo è quello di una coppia con tre bambini maschi di 3, 5 e 7 anni. Il padre richiedeva, consenziente la moglie, di sottoporre i figli al test di paternità… tutti e tre! Dopo aver effettuato l’esame, e solo per pura conferma anche i test di fratellanza Y tra i piccoli, questi risultarono esseri figli biologici di quell’uomo il quale mi confessò, con il referto tra le mani, che sospettava che i bambini, o anche solo uno di loro, fossero di suo padre. Il che, per la legge del cromosoma Y poteva essere vero ma non significativo, in quanto solo il test classico di paternità ci dava una certezza matematica e genetica che quel padre fosse il vero padre dei tre figli, cosa assolutamente certa, e che non lo fossero il nonno o lo zio”.
Per quali altre ragioni si può arrivare a fare un test di parentela o di paternità? “Nonostante la ragione sia quasi sempre e solo una, le circostanze possono essere molteplici. Un test di paternità può risultare importante in vista dei diritti e dei doveri del padre, come nel primo caso da me citato. Qualcuno può ricorrere al test semplicemente per conoscere la verità sulla propria famiglia, come mi è capitato per i figli adottati che sanno di esserlo e, ormai adulti, vogliono conoscere la storia della loro vita e iniziano a fare indagini personali. O, ancora, si può essere spinti dal richiamo di una cospicua eredità o dal desiderio di entrare a far parte di una famiglia. Se i figli sono minorenni, però, entrambi i genitori o comunque coloro che detengono la patria potestà devono dare il proprio consenso. Ricordo una vicenda decisamente felice riguardante un uomo sulla cinquantina e uno di circa 10 anni più anziano. Il cinquantenne non aveva più i genitori e sapeva di essere stato adottato, ma sosteneva di aver scoperto tramite un social network di avere un fratello più grande che viveva in una cittadina del Nord Italia. I due si scrissero, si incontrarono e, anche in seguito a ricerche, ricostruirono tutta la storia: la madre del cinquantenne aveva lavorato per anni nella casa di una ricca famiglia del Nord, era poi stata licenziata con una scusa quando era rimasta incinta e se n’era tornata in Sicilia nel suo paese d’origine. Di lei si ricordava bene il fratello maggiore. I due decisero quindi di sottoporsi al test di parentela che diede risultato positivo con un valore di probabilità molto elevato: non avevo i genitori di riferimento, morti da tempo. Ricordo ancora le lacrime di questo signore quando discutemmo il referto. Era emozionato, non gli interessava l’eredità ma solo conoscere la sua parentela biologica o ciò che ne rimaneva. Un’altra vicenda che ricordo con commozione riguarda un bambino nordafricano cresciuto in una missione di Addis Abeba. Fui contattata da un conoscente laico, di madre etiope e padre messinese, che lavorava in quella missione e che mi chiese di fare il test di paternità al piccolo e confrontarlo con del sangue su una camicia appartenuta a un ricco avvocato, assassinato poco tempo prima e che si mormorava essere il padre del bimbo in questione. Data la distanza evitai di farmi inviare il sangue del piccolo e chiesi dei capelli provvisti di bulbo e un brandello di camicia insanguinata che il laico aveva conservato. Giunsero quindi a Messina, in una busta con dei bellissimi francobolli che ancora conservo, dei riccioli neri e un pezzo di stoffa. Quel bambino risultò essere figlio biologico del professionista ucciso e quell’esame avrebbe cambiato così la sua vita. In Italia sarebbe stato solo un test informativo in quanto non era stata certificata da me né da alcun funzionario l’identità dei soggetti, ma nella missione ci fu entusiasmo tale che mi invitarono ad Addis Abeba e mi elessero consulente a distanza nel caso fossero serviti altri test di paternità”.
E il test di maternità? “È decisamente meno comune, ma mi è capitato di farne qualcuno, uno dei quali alcuni anni fa. Si trattava di una signora che si era sottoposta in un Paese straniero a una fecondazione artificiale in età avanzata. Lei e il marito si rivolsero a me perché al loro bambino era stata riscontrata un’anomalia genetica ereditaria, non presente nei genitori. I coniugi, risultati per altro sprovvisti di documentazione di tracciabilità sull’operazione svolta nell’ospedale straniero, iniziarono quindi a sospettare. Cosa era accaduto in quella sala operatoria? Il test di maternità, confrontando le cellule della madre con quelle del ragazzino, ci diede la risposta: il bimbo era nato dall’ovulo di una donatrice e di quell’ovulo donato la coppia era all’oscuro. La signora mi diceva che la clinica aveva fatto miracoli! Si era trattato, dunque, di una fecondazione eterologa. Il papà, invece, era quello biologico”.
Altri casi particolari su cui ha lavorato? “Mi si presenta in studio un uomo che sostiene di parlare con una presunta santa che gli appare su un libro: immagine che, dichiara poi quel signore, è come dipinta con sangue umano. In realtà, grazie anche all’aiuto di un collega entomologo, non tardai a scoprire che si trattava del siero di un malcapitato insetto relativamente comune che era finito schiacciato tra le pagine. Risultato dell’incidente era la presunta immagine, molto suggestiva ma casuale (ognuno vede ciò che vuol vedere) di un volto di donna, la presunta santa. Ma questo non è più campo scientifico! Vi fu poi un antiquario, esperto di arte sacra, che mi chiese di analizzare una sedia ecclesiastica per poter stabilire se risalisse o no a prima dell’800. In pratica mi chiedeva di determinare se l’imbottitura era di capello o crine di cavallo. Scoprii che in passato, a volte, le imbottiture delle sedie venivano realizzate con capelli tagliati alle suore di clausura. Con l’aiuto di un buon microscopio, giacché il materiale era assai malconcio, e con dei campioni umani e poi di code di cavalli siculi di riferimento che mi furono forniti da un veterinario, stabilii che l’imbottitura era stata creata con crine di cavallo: la sedia era quindi di epoca più recente”.
Tanti casi di persone scomparse o disperse e di discendenze storiche si sono risolti grazie a test sul DNA. Basti pensare all’identificazione dei componenti della dinastia Romanov. Non è possibile prendere una cantonata? “Direi proprio di no. Prima di tutto perché il DNA è stabile negli anni, anzi nei secoli. Teme solo l’umidità, le muffe e i batteri, che lo degradano. In un ambiente secco, né troppo caldo né troppo freddo, diciamo alla temperatura ideale di 25 C°, si può mantenere integro per millenni. Per il caso di identificazione da lei appena citato si partì dal principe Filippo d’Inghilterra, genealogicamente imparentato con la famiglia russa, e così si poté lavorare sui resti mortali dei parenti dello zar concludendo che si trattava proprio di loro. Potremmo poi citare il caso ben più antico di Tutankhamon o quelli più recenti dei disastri di massa come lo tsunami in Indonesia e l’attentato delle Torri Gemelle o ancora la vicenda del Costa Concordia, sempre per identificazione personale tramite DNA. In quest’ultimo disastro all’appello mancavano due corpi. Furono trovati parecchio tempo dopo, uno quando fu portato su il relitto e l’altro in mare aperto, lontanissimo dalla nave. Entrambe le vittime furono identificate grazie al loro profilo genetico confrontato con quello di parenti stretti. Questo perché, secondo le ben note leggi della genetica, ciascun essere umano possiede 46 cromosomi, 23 ereditati dal padre e 23 dalla madre. Il patrimonio genetico che ereditiamo dai nostri genitori è pari quindi al 50% per ciascuna parte. Ogni nostra cellula ha 2 metri di DNA e con le recenti tecnologie bastano da 3 cellule in su per avere informazioni genetiche su un individuo. Pensi a quante cellule ci sono in un corpo umano e quindi immagini quale grande meraviglioso meccanismo ci portiamo dietro… e in grande quantità!”.
A questo punto
Oltre a essere in generale una donna di scienza, lei ha avuto a che fare con i virus HIV, HBV e HCV che ha definito bestie nere per i virologi. Cosa pensa come scienziata del COVID-19? Cos’ha provato, come essere umano, quando quest’ultimo è passato dall’animale all’uomo? “Basandomi su quanto all’inizio emergeva ero abbastanza tranquilla: pur trattandosi di un virus fino a quel momento sconosciuto all’essere umano nel ruolo di ospite, pensavo francamente che una solida componente immunologica e il non recarsi in Paesi dove l’epidemia, non ancora pandemia, rappresentassero difese sufficienti a proteggersi. Allora, però, non erano chiare le modalità e la velocità di trasmissione. Quando si seppe dei primi casi nel nord Italia, forte della conoscenza dei meccanismi e delle terapie sui primi pazienti, continuai a essere convinta che il COVID-19 non si sarebbe diffuso così come invece è accaduto. Mi sbagliavo clamorosamente, ma tale errore di valutazione è stato dovuto proprio al fatto che si tratta di un virus totalmente nuovo, così come lo fu l’HIV negli anni ’80. Ma quanti anni, quanti studi, quante terapie e quante vittime ci sono stati prima di giungere all’attuale situazione di conoscenza sulla trasmissione virale dell’HIV! Proprio come accadde per la pandemia di Spagnola, che fu studiata parecchio prima di essere compresa e arginata, anche se all’epoca non si viaggiava come oggi. Adesso basta prendere un aeroplano ed è fatta, perché un virus, tramite l’ospite sia umano che non, può muoversi in poche ore da una parte all’altra del globo. Le pandemie ciclicamente appaiono nella storia umana un po’ come lo fanno i terremoti e mietono irrimediabilmente vittime. Questo coronavirus però, oggi lo sappiamo con certezza, ha una modalità di trasmissione aerea incisiva e molto veloce. Quanto alle mie sensazioni come essere umano ho provato una profonda rabbia per tutte le perdite subite nonostante il personale ospedaliero (medici, tecnici e tanti miei colleghi biologi) a prescindere dai mezzi a disposizione e dal livello di efficienza, abbia reagito in modo eccezionale”.
Dottoressa, il suo è un curriculum che pochi in Sicilia possono vantare. Vuole raccontarci in sintesi com’è iniziata la sua carriera? “Il mio iter è cominciato subito dopo la laurea. Dopo aver frequentato i laboratori di Virologia dell’Istituto di Microbiologia della Facoltà di Scienze di Messina, mi capitò di leggere un trafiletto su un noto quotidiano nazionale (all’epoca internet non esisteva): l’Istituto di Tecnologie biomediche avanzate del CNR di Milano cercava neo laureandi per un progetto di ricerca sull’AIDS e il datore di lavoro era nientemeno che il Nobel Renato Dulbecco. Senza nessuna aspettativa, ma “la fortuna aiuta gli audaci”, e forse perché essendo luglio inoltrato e la scadenza era in agosto ricevettero poche richieste, vinsi una borsa di studio e partii. Avevo 23 anni e mi ritrovai a lavorare in uno dei laboratori più importanti d’Italia, forse il più importante, a sequenziare il DNA dell’HIV e non solo, a conoscere le tecniche biomolecolari che nascevano proprio in quegli anni e soprattutto ad avere il professor Dulbecco come maestro. Nacque così il mio amore per il DNA, e per i virus, che mi portò a specializzarmi in Microbiologia e Virologia medica”.
Che accadde dopo? “Rientrai a Messina e lavorai per alcuni mesi come volontaria al reparto di Anatomia Patologica dell’ex ospedale Regina Margherita, ma subito dopo tornai a Milano perché ottenni un’altra borsa di studio nella sezione di Biologia molecolare di Anatomia e Istologia Patologica dell’Ospedale Niguarda, eccellenza allora come oggi in molti campi. Lì mi occupai di diagnostica molecolare applicata a leucemie e linfomi e allo stesso tempo feci esperienza in ambito virale. Dalla fine del 2001 al 2005 ho lavorato invece per l’Istituto Superiore di Sanità di Roma al laboratorio di Virologia, dove ho preso parte al Trial fase I vaccino HIV. In ambito virale ho avuto a che fare anche con l’HBV e l’HCV, ossia le epatiti B e C, e in tanti anni di esperienza ho potuto destreggiarmi fra provette, cappe e materiali infettivi al punto tale da acquisire una conoscenza sempre più elevata, fino al sequenziamento del DNA dei virus. Passare poi dai virus all’uomo è stato solo cambiare l’oggetto di studio. Dal 2006 al 2007 ho prestato servizio al Laboratorio di Parassitologia del Dipartimento di Scienze di Sanità pubblica di Roma e all’ASL 5 di Messina al Laboratorio di Patologia Clinica e in quello stesso periodo hanno preso il via i lavori che attualmente svolgo nella mia città natale: quello di Responsabile della Medicina di laboratorio specializzato in Biologia molecolare, Genetica e Citologia dello studio Fata Morgana di Messina e quello di consulente tecnico iscritto all’Albo dal 2008 per il Tribunale. Competenza, quest’ultima, certificata da un Master in Scienze Forensi di II livello conseguito qualche anno fa tra i prestigiosi laboratori del nucleo Carabinieri RIS Messina e la Facoltà di Scienze dell’Università di Messina. Attualmente sono anche docente biologo della Scuola per Consulente tecnico giudiziario per professionisti sanitari, anche se le lezioni si son interrotte per l’arrivo del COVID-19”.
Con lei sembra di stare parlando con un personaggio di CSI… “Non sono un’appassionata di quella serie e credo che purtroppo il DNA sia stato spettacolarizzato oltre ogni misura, cosa che non condivido. Un conto sono le fiction, un conto la realtà. Un omicidio non dovrebbe essere trattato come un telefilm a puntate, così come nessun altro reato né qualsiasi vicenda e soprattutto quelle che riguardano i minori. Purtroppo, infatti, a volte la realtà, quella davvero orribile, supera la fantasia”.
In chiusura mi sorge spontanea un’ultima domanda: a questo punto della sua carriera, c’è qualcosa che non ha ancora fatto e le piacerebbe fare? “Mi piacerebbe continuare a lavorare nel mondo della biologia forense, campo in cui non ci si annoia mai e dove conta il sapere ma a volte anche l’inventiva, sempre supportata dalla scienza. E poi ogni caso è diverso dall’altro. La conoscenza della materia mi ha dato la chiave per parlare la “lingua” degli esami forensi, capire come fare delle osservazioni, come difendere o come accusare. Non si finisce mai di imparare. In ambito COVID-19 mi piacerebbe saperne di più e magari poter partecipare a studi sul sistema immunologico degli italiani, da Nord a Sud, su quello dei singoli che hanno contratto il COVID-19 e di chi, nonostante sia stato a contatto con malati, non lo ha preso. Non sappiamo tra l’altro cosa succederà in quest’autunno. Se il virus muterà, se gli anticorpi di chi ha contratto l’infezione saranno efficaci come protezione… Un’analisi della componente genetica degli italiani, ma direi anche degli europei, aggiungerebbe di sicuro molto alla conoscenza della storia naturale dell’infezione”.