Processo Montagna, imputati condannati a risarcire Ignazio Cutrò, che chiede di essere riammesso nel programma dei testimoni di giustizia

Tribunale giustiziaAGRIGENTO. Archiviata, con condanne per  oltre 330  anni di carcere,  la sentenza di primo grado del processo “Montagna”, scaturito dall'omonima operazione antimafia ed emessa lo scorso 25 luglio al Tribunale di Palermo, evidenzia, ancora una volta, come qualcosa sulla valutazione dei rischi a cui sono soggetti Ignazio Cutrò e i suoi familiari, non ha funzionato.
Tra gli imputati del processo Montagna figura anche Giuseppe Nugara, considerato il reggente della famiglia mafiosa di San Biagio Platani, quest'ultimo, condannato giovedì scorso a 19 anni e 4 mesi di carcere ed attualmente detenuto in regime di 41 bis. Nugara è colui che il 6 febbraio del 2014, durante una conversazione con un allevatore suo compaesano, intercettata dalle forze dell'ordine, delineava chiaramente
la leadership della famiglia di Bivona, attribuendola a Giuseppe Luciano Spoto, condannato giovedì scorso a 19 anni e 8 mesi.

Non solo, nelle intercettazioni messe poi  agli atti dell'istruttoria, Nugara diceva di Cutrò, l'ormai celebre “Appena lo Stato si stanca…che gli toglie la scorta poi vedi che poi”. Nel processo, Ignazio Cutrò si è costituito parte civile e il GUP Marco Gaeta ha accolto la richiesta dell'ex imprenditore di Bivona, condannando tutti gli imputati al risarcimento. Il presunto boss di San Biagio, Giuseppe Nugara,  dunque, nel febbraio del 2014, intercettato, meditava possibili future vendette nei confronti del testimone di giustizia.

Con adottata dalla Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, il 20 ottobre del 2016, cioè circa 32 mesi dopo le parole di Nugara,  i NOP -Sicilia occidentale, hanno notificato ad Ignazio Cutrò la mancata proroga delle misure di protezione in favore dello stesso e del suo nucleo familiare con successiva  revoca della  scorta alla sua famiglia.

Per la commissione del ministero dell' dunque, nonostante l'intercettazione di Nugara e alla vigilia della scarcerazione, per espiazione delle pene, dei mafiosi di Bivona che Cutrò con le sue denunce ha fatto arrestare e condannare,  i familiari del testimone di Giustizia non avrebbero corso più nessun rischio. Cutrò, per sua scelta,
decise di uscire dal programma di protezione per evitare che i suoi cari, diventassero facile bersaglio di eventuali vendette trasversali.

“Con le condanne di primo grado del processo Montagna e l'utilizzo nell'istruttoria delle intercettazioni di Nugara del 2014, è chiaro a tutti che lo Stato sapeva, ma qualcuno, nel 2016,  ha comunque ritenuto opportuno dire che la mia famiglia non correva più nessun rischio. Voglio sapere, in base a quale criterio è stata decisa la revoca della
scorta a mia moglie e ai miei due figli”. Così  Ignazio Cutrò commenta la sentenza emessa al Tribunale di Palermo.

“La commissione centrale è un organo politico, cambiano i governi e mutano anche le forze che la costituiscono, ma la tutela di un testimone di giustizia – ha aggiunto l'ex imprenditore – dovrebbe essere garantita sempre e comunque, a prescindere dai colori politici. Qualcuno, spero in  buona fede, non ha considerato la memoria di ferro della mafia, cosa nostra non dimentica. L'errore c'è stato – dice ancora Cutrò – è palese, si abbia almeno l'onestà intellettuale di ammetterlo”.

Tramite il suo legale, l'avvocato Katia La Barbera, Ignazio Cutrò, con  una nota indirizzata al ministero dell'Interno, alla Procura di Palermo e alla di Agrigento, chiede agli organi destinatari,  di adottare i provvedimenti ritenuti più opportuni per una concreta tutela dello stesso e dei suoi familiari, ivi compreso, la reintroduzione nel programma dei testimoni di giustizia.

 

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