Il vampiro dello Stretto, capitolo 13
Mi scoprii dopo qualche minuto a soffiare come un serpente, i denti scoperti e rivolti al cielo senza sapere o capire perché lo facessi. Cercai di darmi un contegno e ci riuscii solo dopo un certo sforzo. Provai a concentrarmi su ciò che mi circondava: l'albero a cui mi aveva inchiodato pochi minuti prima era ad un paio di metri da me, ma era irraggiungibile. Inoltre, anche quando ci fossi arrivato non mi avrebbe giovato granché. Era un albero di ciliegio, che a giudicare dallo squarcio che quello stronzo aveva fatto per inchiodarmi lì, non si sarebbe ripreso. Poco più in là si vedevano i resti del castagno contro cui avevo lo avevo scagliato, ormai ridotto ad un irriconoscibile mucchio di rami secchi e schegge.
Nubi nere e solitarie correvano sullo sfondo stellato del cielo, spinte da un vento freddo e corroborante che accarezzava prato facendolo muovere come il manto di una mangusta davanti ad un cobra. Il freddo umido che risaliva dal terreno assieme all'odore dell'erba, della terra nera di montagna e del legno spolpato, mi affollava le narici e la consistenza umida e granulosa del terreno mi riempiva le mani, accarezzate allo stesso tempo dalla delicatezza del manto erboso. Cercai assiduamente tutte quelle sensazioni, mi ci concentrai fino ad ubriacarmene, fin quando l'unione di tutti questi elementi caotici e volanti non riuscì a distogliermi dal pensiero che mi aspettavano diverse ore di sofferenza prima di una morte tanto atroce quanto rapida. Avrei avuto tutte le ragioni di disperarmi e piangere come una bambina, tuttavia non avevo nessuna intenzione di farlo. Anzi, mi costrinsi a sperare.
Una volta riuscito a tenere una parte della mia mente al di fuori dell'orgia di sofferenza e paura che cercava di occupare ogni singola cellula del mio cervello, mi sforzai di provare a pensare a qualcosa, a ragionare su tutto quanto avessi potuto sfruttare per salvarmi. Purtroppo, stare nel bel mezzo di un prato a quattro di spade senza la minima copertura non mi offriva troppi appigli. Pensai di trasformarmi in nebbia ma non ne avevo le forze, non avevo capito come facevo e non mi sarebbe servito a niente. Misi l'idea nel mucchio dei forse. Pensai di gridare con tutte le mie residue forze, ma ero in piena campagna all'una passata, il gioco non valeva la candela. A quell'ora e in quella zona avrei solo potuto sperare in qualche coppietta in fregola. L'appiccicume del mio stesso sangue che mi colava lungo la faccia e tutto il collo continuava a distrarmi ad ogni refolo di vento, che mi sussurrava quanto mi avesse conciato male. Forse, se avessi avuto fortuna l'odore del mio sangue avrebbe potuto attirare qualche piccolo predatore e con un po' di fortuna avrei potuto afferrarlo e nutrirmi. Poi ricordai che pochi animali si avvicinano volentieri ad un vampiro e mi diedi dell'idiota.
Cominciai a mettere da parte quelle idee strampalate, mi restavano poco più di sei ore prima della fine, se volevo cavarmela dovevo cercare di essere più concreto possibile. Cosa potevo fare in quello stato? Nulla, tranne forse strisciare ed ero troppo distante da qualunque tipo di rifugio. Provai a girarmi sulla pancia e nonostante mi costò un certo sforzo ci riuscii, trovandomi così a fissare la pozza scura che io stesso avevo creato col mio sangue. Allungai una mano raccogliendo un po' di quel terreno umido misto al mio sangue e provai a mettermelo in bocca, ma sapevo bene di non poter mandare giù altro che sangue. Sputare quel bolo di terreno fangoso fu una reazione immediata e quasi istintiva. Tuttavia guardai il piccolo solco che avevo scavato col dito e presi a pensare: sei ore erano davvero un bel po' di tempo. Le mie mani presero a scavare piano nel terreno nero. (Continua il 16 luglio)