Da Thofania D’Adamo alla “vecchia dell’aceto” Giovanna Bonanno: la scuola della avvelenatrici
“Prometto di esserti fedele sempre nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi”. Questa è una delle tante formule di consenso pronunciate durante i matrimoni e sottolinea la volontà di rimanere uniti fino alla fine. Ma cosa succede se il matrimonio non corrisponde alle aspettative della coppia? Oggi è abbastanza facile: quando il matrimonio non va e nessuno dei due coniugi soffre di gelosie patologiche, si divorzia. Ma fino a qualche generazione fa era impensabile. Quando i matrimoni si “organizzavano a tavolino” erano dei contratti vincolanti tra due famiglie. Molte persone si trovarono così incastrate in relazioni lontanissime dai propri desideri. Quando non esistevano tutte le meravigliose leggi a difesa dell’individuo, lo “ius corrigendi” era una pratica abituale. Degli “amabili” mariti si sentivano in dovere di “educare” le mogli all’obbedienza. Come poteva una donna vessata, terrorizzata ed esasperata uscire da quella situazione? In quale maniera poteva liberarsi di un uomo che poteva pesare pure due volte il suo peso e sicuramente più abituato alla lotta? In che modo ci si poteva liberare da quella paura, pur non avendo la capacità fisica di ribellarsi in maniera diretta da quella tortura quotidiana? Se al coniuge “prudevano le mani” in maniera ripetuta e continuata, l’atmosfera di casa non era quella di nido sicuro ma quella di una trincea e il “ finché morte non ci separi” prendeva tutto un altro significato. Nella Palermo della prima metà del XVII secolo Thofania d’Adamo, una signora “magrolina e modesta”, che lavorava con la figlia e un buon numero di apprendisti, risolveva questo genere di problemi. Con due once di arsenico macinato, un “grosso”, una “foglietta” di piombo,